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Il film è stato interamente
realizzato a LOCALEDUE nel mese di maggio 2015. Tra il disallestimento della
personale Folding Studio di Niccolò Morgan Gandolfi e la personale jenga di
Fabrizio Perghem.
M.Melis(aka
MethisMacs)e M.Tedescosperimentano in Pocket Pass il valore del video come
testimone. Scelgono di farlo con un occhio ibrido e trasversale che non sposa
in pieno le caratteristiche di uno specifico linguaggio filmico. Pur accettando
la commissione di LOCALEDUE di girare un film che potesse registrare le
attività dello spazio e indagarne le attitudini, il loro prodotto non è
quindipropaganda di alcuna idea o intento
del committente. Piuttosto ne descrivedinamiche e potenzialità. Ne registra, diversamente da ciò che è
abituale fare, la sottostruttura piuttosto che la superficie.
In un luogo
dove si fanno mostre, tra due eventi, c'è sempre un tempo tecnico in cui lo
spazio è nascosto al pubblico. Sono i momenti dedicati alle installazioni, alle
prove e ai disallestimenti. E' sfruttando questo tempo che l'esperimento genera
una testimonianza obliqua e segna un'attività quotidiana capace di proiezioni
mentali, astratte e potenziali. Come i momenti di vuoto sono necessari ad uno
spazio per preparare una mostra, allo stesso modo sono utilizzati nel film per
preparare l'occhio alla scena successiva. Sono ossessivamente replicati e
moltiplicati in una loro versione assottigliata.
Il film
porta a pensare che un motivo, scevro da politica e mercato, per cui lo spazio
vuoto continua a resistere nel mondo delle esposizioni, non sia da ricercare
nella sua capacità di avvalorare o sacralizzare oggetti; e nemmeno sia legato
alla sua forza astrattiva. Se lo spazio vuoto resiste, è in quanto possibile
riserva di un campo libero da indicazioni e pretesti.
Ecco che ciò
che vediamo in Pocket Pass non è una serie di performance da leggere con gli
strumenti dell'arte contemporanea. Piuttosto un ciclo di azioni, atte a far
riemergere come un bisogno una ludica serietà con cui l'uomo è abile a votarsi
all'espressione e alla curiosità. Per questo ogni simbolismo è assente. Per
questo ogni atto appare come un'ambigua prova di un soggetto casuale. Di
comparse che, appunto, hanno realmente bisogno di uno spazio non segnato per
mettere in pratica le proprie pulsioni.
E' quindi
l'azione l'unico strumento di narrazione messo in campo. Di fronte a questo la
regia pratica un linguaggio espressivo che, autonomo e affrancato dalla realtà,
rimarca la sua presenza artificiale e la esaspera nel montaggio. Due camere
fisse emulano una sorta di schizofrenico sistema di sorveglianza, posto a
salvaguardia di pavimenti e pareti piuttosto che di valori oggettuali e di
pregiudizi. Ciò che succede non è incidentale, ma agli occhi delle camere
appare quasi privo di interesse, al più un motivo di distrazione.
L'esperimento
sul suono, che a causa del dominio del retinico potrebbe passare inosservato,
segna ancor più dell'immagine il carattere dello spazio. Frequenze metalliche e
industriali riecheggiano fino all'incomprensione in un piccolo luogo dove
sopravvive il riverbero dell'hangar e della cattedrale.Anche attraverso ciò si amplifica, finendo
per distruggerlo, quel potere per cui con l'immagine spesso si tenta di
ricostruire la frammentarietà di eventi ed esperienze. In un esercizio che si
pone come scopo quello di allenare spalle abbastanza larghe da considerare il
sacrificio, l'inconcludenza, il rumore e l'insuccesso di ogni esperimento.
L'inizio e
la conclusione del film, dove assistiamo al disallestimento di un'opera e a
un'altra che sta per essere allestita, permettono invece di scorgere una
necessità di rinunciare ai concetti, perché negativi rispetto alla fisicità
dell'arte: dove è ancora la cosa, il materiale e l'oggetto, a prendere il posto
dell'immagine e del mentale. (G.T.)
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